Dopo le Regionali della scorsa settimana si è ammesso che le elezioni per il centrosinistra in provincia non sono andate bene, che serve una fase costituente, che occorre allargare la coalizione, che è necessario tornare tra le persone superando le beghe di corrente, il tutto condito con generici appelli all’unità. L’esercizio dell’analisi del voto, momento di riflessione condivisa, suona troppo spesso come una tardiva presa di coscienza senza anima, dimenticata nei fatti pochi giorni dopo. Una sequenza di commenti di vincitori, perdenti e una categoria ibrida, i “perditori”, quelli che hanno perso ma anche un po’ vinto: c’è materiale a sufficienza per costruire resoconti per ogni necessità, affondi, critiche o endorsement.
Poi la posizione decisa e schietta del segretario del Circolo Pd del centro storico Roberto Panchieri che, parlando di umiliazione dei circoli nella scelta dei candidati ha invitato a ripensare ai processi di formazione della classe dirigente e alla ricostruzione sul territorio un partito che non c’è più.
Il Pd il prossimo 14 ottobre compirà 13 anni. Ma perché non c’è più? Forse gli ingredienti dell’impasto dei partiti che si unirono rimasero in superficie? Forse oltre il Manifesto per il Partito Democratico del 2006, che divenne nel 2008 il Manifesto dei Valori, ci si è fermati ai valori che, seppur importanti, certo non bastano?
Non voglio pensare che il Pd, nato sulle radici dell’Ulivo, avesse quelle radici già malate sul nascere. Ricordo le primarie dell’Unione in un magico 16 ottobre 2005. Oltre 4 milioni e 300 mila persone con un entusiasmo incredibile, in coda, desiderose di votare. Da quell’epico passaggio democratico, uscì, con il 74 per cento di voti, il candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio per le Politiche del 2006. Poi, per lo più, quasi meglio dimenticare. Perché forse è stato fatto il contenitore ma lasciato in superficie il contenuto e gli ingredienti di quell’impasto non si sono ancora amalgamati veramente? Parlo di economia, lavoro, ambiente, istruzione, sanità, giustizia… Il racconto invece batteva sulle alleanze, sulle primarie che da strumento divennero il fine, sulle correnti e sul controllo della struttura organizzata di quello che rimaneva dei partiti, con la quale è possibile monitorare gli iscritti e gestire il potere. Nessun tentativo, o comunque insufficiente, di lavorare su un cambio culturale autonomo che non fosse, nei metodi, lo scimmiottare politiche e modalità di altri e che ad altri venivano meglio. Così si perde, non si trova o senz’altro non si crea una propria identità. Le tensioni personali dei singoli leader del momento hanno fatto il resto.
Berlinguer già nel 1981 affermava che i partiti non facevano più politica. E quanto tempo è passato. Seguì, dopo un decennio la disgregazione di quei partiti, un tentativo di riforme, occasioni perse, speranze deluse, prove tecniche per un partito liquido fallite.
Mi viene in mente la lettera aperta, assai predittiva, che il nostro sindaco Alessandro Tambellini scrisse al Pd il 6 gennaio scorso: Caro Pd torniamo ad essere il partito dei lavoratori e degli sfruttati, serve innovazione e coraggio. Quindi contenuti non solo ideali, ma un invito alla verità intesa come coerenza fra parola e prassi, che certo mi coinvolge nella mia responsabilità di amministratrice. E che sottoscrivo.
E proprio quella verità ci chiede di non nasconderci di fronte alle difficoltà, ma di affrontarle, con lealtà. E allora è tempo di una nuova politica. Certo di ricette pronte all’uso non ce ne sono e abbiamo bisogno di condividere un’etica rinnovata dello stare nelle istituzioni e tra le persone che interroghi tutti, governati e governatori.
Nella frenesia dell’apparenza che uniforma sguardi e linguaggi si fa strada oggi una mai sopita urgenza di verità. Non c’è più spazio per le contrapposizioni personali, per le notti dei lunghi coltelli, per le cadute di stile sui social. Di fronte a sconvolgimenti epocali come quelli che stanno attraversando il pianeta, dalla pandemia al grido di dolore dell’ambiente, veramente possiamo credere di essere compresi o anche solo comprensibili nelle brevi tattiche nate ad hoc per ogni tornata elettorale? Occorre una tessitura quotidiana, un lavoro paziente, un’azione collettiva condivisa, dove ognuno, se vuole, si possa sentire partecipe.
Ecco perché vorrei che cogliessimo l’opportunità, come donne e uomini impegnati per la città, di farci spartiacque della liturgia lisa della corsa alle elezioni. Di farlo con l’esempio e con la fatica. Perché nessuno di noi è qui per se stesso ma per un’idea, per una spinta interiore. Ogni giorno è in potenza generativo: spetta a noi, con la cura, fare la differenza.
La nuova politica non insegue tendenze, non si scioglie come le ali di cera dell’Icaro di turno, ma dissoda il terreno ogni giorno. Comunica con lealtà, senza ipocrisie o infingimenti, con l’obiettivo di costruire e mai di distruggere. Rifiuta l’odio e si ostina a ricucire relazioni autentiche, schiette, anche sgarbate se necessario.
“Mi interesso di te perché sei come me”: ripartire dalle persone vuol dire anche questo: accendere un sentimento, un’emozione, un interesse. Quel qualcosa che non è misurabile né valutabile, che non sta nei grafici o nei ‘piani delle performance’. Che nasce e si alimenta nella condivisione, nella complicità, nel sentirsi utili e necessari per qualcosa di più grande. La nostra libertà – il virus insegna – è nella convivenza.
La responsabilità della nuova politica accoglie la sfida della reciprocità e scommette sui cuori, consapevoli che poi, nel lavoro di ogni giorno, occorra metodo, studio, approfondimento. Solo cosi si genera l’azione politica.
Anche a Lucca: rimaniamo nel presente, su un piano di realtà e continuiamo a dare forma, nella città, ai principi che danno ossigeno a questa esperienza politico-amministrativa. Le scelte di oggi, anche sofferte e discusse, saranno testimonianza di ciò che abbiamo saputo affermare. Della politica nuova che vuole trasformare in energia il tempo della crisi.